The Hope’s eyes

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view post Posted on 7/12/2009, 11:50
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Boss I. La Furba
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The Hope’s eyes


Ancora non mi capacito di come sia potuto accadere…prima andava tutto bene. Anche troppo.
Gli eventi si susseguivano simili e regolari, tanto da risultare quasi monotoni.
Noia…ricordo ormai con nostalgia i momenti in cui mi trastullavo senza far nulla in casa. Gironzolavo qua e là, passando dalla sedia al divano e dal divano al letto fermandomi definitivamente su quest’ultimo. Quella trapunta profumata, calda e soffice come nessun’altra su cui mi sia mai sdraiata. Sembrava un sogno allora, adesso non è che una fantasia.


Ma sentitemi…sono passati pressoché una decina di soli e già penso a quei momenti come ad un passato lontano.


Sì, rammento che il mio tempo era scandito come un orologio svizzero. C’era un determinato momento per fare quello e uno per fare quell’altro. Ovviamente non tutto dipendeva da me. Parte del merito va alle persone con cui dividevo casa. A pensarci bene ero trattata come una regina. Servita e riverita quasi in tutto, mi arrangiavo solo in quelle cose che era indubbio mi dovessi arrangiare. Non serviva che me lo dicessero, lo sapevo di mio.
Come tutti ho ed avevo i miei vizi, che ora non riesco più a soddisfare come vorrei purtroppo. Sapete, il pomeriggio ero solita uscire a farmi un giro. Era solo uno sfizio, non sarei morta a non farlo, però qualcosa mi spingeva ad andare, ne avevo bisogno.
Bighellonavo nei dintorni, passavo dalla casa dei vicini dove scorgevo Bull, il loro bavoso cane, incatenato al muro. Sostavo alcuni minuti ad osservalo solo per l’insano divertimento di sentirlo abbaiarmi contro colmo di rabbia, poi ripartivo.
In poche parole non avevo una meta precisa, l’unica tappa fissa era quella, per il resto giravo qualche ora e poi me ne tornavo a casa proprio quando rientrava uno dei miei coinquilini così da non dover riaprire due volte la porta.
Salutavo tutti giusto per far sapere che ero tornata e poi andavo a lavarmi. Ai miei occhi fuori era sporco.


Che idiota ero…non avevo proprio niente di meglio da fare.


E infatti, nella mia calma imperturbabile venni colta alla sprovvista.
Eppure avrei dovuto annusare nell’aria qualcosa!
Quel fare concitato con cui i miei conviventi discutevano la sera e quel clima di tensione che regnava a casa da diverso tempo, dovevano risvegliare in me qualche sospetto, invece…niente.
Come ogni sera andai a letto - su quella bella coperta che profumava di vaniglia – con la certezza che al sole dopo avrei fatto le medesime cose di quel sole.
Pensai male…
Venni svegliata da un lieve rumore che fece vibrare le mie orecchie e che mi mise in allerta i sensi. Quando cessò, ricordo che ero tentata di guardare dalla finestra per controllare, ma qualcosa mi suggerì che prima era meglio scendere dal letto ed andare a bere un goccio d’acqua. Diedi uno sguardo alla convivente che divideva il letto con me. Un cucciolo d’umana raggomitolata su sé stessa sotto le coltri pesanti per l’inverno.
Era profondamente addormentata.
Mi avvicinai al suo viso, ancora paffuto, per annusarne il respiro. Era dolce, probabilmente aveva ingurgitato una di quelle tavolette scure.
Bofonchiò qualcosa, grattandosi uno zigomo quando, sporgendomi troppo, i miei baffi le accarezzarono la pelle chiara, allorché mi allontanai.


Le mani dei cuccioli dei bipedi sono pericolose.


Scesi dal letto con un salto, avvicinandomi alla mia ciotola ancora piena, non avevo toccato cibo. Prima di chinarmi diedi ancora uno sguardo alla finestra. Di fuori regnava una strana calma, ma non ci pensai. Abbassai il capo iniziando a bere a grandi lappate il liquido fresco.
Accadde allora.
Non ricordo bene l’ordine dei fatti, ma quel boato, il letto dell’umana che mi volava sulla testa schiantandosi contro il muro, prima che esso stesso fosse distrutto da un insieme di luce e vento dalla forza violentissima.
Io…io…io non pensai.
Tentai con tutte le mie forze di restare ancorata al terreno mentre boati e luci simili si accendevano tutto attorno a me.
Non capivo più nulla.
Non sentivo.
Non riuscivo più a percepire gli odori.
A stento vedevo.
Il fatto che improvvisamente fossi finita all’esterno era superfluo, l’unica cosa che contava era salvarmi la pelle.
Un pensiero inutile il mio. Una resistenza inutile…Brevi istanti, gli artigli si spezzarono e anch’io fui scagliata via senza facoltà d’opposizione. E fu il buio.
Non so dopo quanto tempo riaprii gli occhi, so solo che la prima cosa che feci fu starnutire: avevo le narici piene di una polvere pungente e fastidiosa. Mi mossi, incoscientemente, per alzarmi, ma ricaddi nell’immediato. Ero debole…e bloccata. No no, le gambe erano a posto…era la coda ad essere incastrata tra le macerie.
Solo in quel momento mi diedi un’occhiata attorno. Era scuro, ma grazie a degli spiragli, alcune colonne di luce penetravano attraverso quel disastro.
Ero sotto.
Non sotto, sotto.., ma sotto.
E la mia coda mi ancorava lì. La cosa strana era che non faceva nemmeno male…


L’avrei capito dopo il perché e in fondo la cosa principale che mi preoccupava era uscire.


Avevo fame, sete…e bisogno d’aria.
Si aria…tipo quella che sentivo arrivarmi giusto in faccia…
Mi ci volle un po’ per collegare quello spiffero ad un’uscita, ma quando me ne resi conto non attesi molto. Con tutte le mie forze tirai, fino ad estrarre la coda dalle rocce e, giunta a quello spiffero, spinsi con la testa un qualcosa di leggero e soffice - sembrava stoffa – sino a spuntare fuori.
La realtà che mi fu sbattuta sul muso non aveva nulla a che fare con il mondo a cui ero abituata. Non aveva nulla a che fare con il MIO mondo.
Un paesaggio desolato mi si presentò dinnanzi. Non fosse stato per l’orizzonte avrei dubitato che quel posto fosse il medesimo luogo in cui ero cresciuta. Era tutto in pezzi. Diversi fuochi divoravano ancora i resti delle poche case che erano rimaste in piedi. Nell’aria aleggiava l’acre odore del fumo misto a quello di carne bruciata mentre un alone scuro e deprimente aleggiava tutto attorno, abbracciando quella cittadina che fino a poco prima era ridente e spensierata.
Muovendo i primi passi in quel luogo che non riconoscevo come mio, mi resi conto che il mio equilibrio si era inesorabilmente spezzato. La mia coda, bilanciere naturale, pendeva moscia mentre, verso la metà della sua lunghezza, potevo scorgere un grumo di sangue rappreso.
Da quella ferita alla punta non avevo più sensibilità. In quel punto la coda era morta.
Ricordo che l’ho pulita e ripulita fino alla nausea, ma oramai la lesione era incurabile. Non era la fine del mondo, però era pur sempre una parte di me e l’avrei persa. Sì si sarebbe staccata di lì a pochi giorni, lo sapevo già.


Un peccato, era una bella coda.


Fu con pazienza e con estrema cocciutaggine che ripresi il controllo della mia stabilità. Non potevo restare là, quelle luci si vedevano ancora e quei rombi, benché distanti, persistevano. Dovevo scappare.
No, non sarei tornata a casa. Non ero tanto pazza da credere che gli umani se la fossero cavata e comunque anche se fossero sopravvissuti, avevano ben altro di cui preoccuparsi che della loro gatta. Invero per me sarebbero stati un peso. Dovevo essere libera di muovermi come volevo. Il mio istinto veniva quasi sempre frenato in loro compagnia e io dovevo poter agire come meglio credevo. La mia priorità in quel momento era allontanarmi da lì.
Ammetto che, nonostante la mia superbia, i primi soli furono duri.
C’era poco cibo, l’acqua era pressoché introvabile e le zampe mi dolevano a causa dei monconi che mi ritrovavo come artigli. Fortuna che qualcuno era rimasto intero permettendomi di acchiappare un paio di topi.


Vili creature…se la spassavano loro.


Erano grassi come mai avevo visto. L’idea che si nutrissero dei cadaveri lì in giro mi disgustava, ma la fame andava placata e le energie rinnovate.
Nei soli successivi presi un buon ritmo. Imparai a non pensare a ciò che ingurgitavo, se non quel che bastava per comprendere se fosse veleno o meno, e a muovermi negli orari più tranquilli, quando gli umani se ne restavano rintanati nei loro buchi.
Vedete, capitava a volte che incontrassi sporadici gruppo d’esseri umani. Molti di loro erano di una gentilezza da farmi pensare che si fossero oramai arresi all’evidenza di quel disastro a me ignoto. Dividevano con me cibo e acqua, a volte addirittura latte. Perché lo facessero non ne avevo idea. Forse gli facevo pena, ma loro dovevano preoccuparsi di ben altro che nutrire una gatta vagabonda e spaurita. Temo che molti di essi infine siano morti…mentre io, io che prendevo e non davo nulla, io che li consideravo sciocchi e dentro di me li odiavo perché si stavano lasciando andare senza opporsi, io sono ancora qui.
Ovviamente non tutti erano gentili.
Non è stato raro che alcune delle persone che un tempo mi davano carezze e coccole, abbiano cercato di mettermi sul loro piatto per la cena.


Ipocriti, alla prima occasione ti girano le spalle…


Per fortuna gli artigli mi ricrebbero.
Finii con non fidarmi più di nessuno.
Camminavo quasi tutto il tempo, tentando di non soffermarmi mai a guardare troppo ciò che mi stava attorno. Bull mi era bastato…riverso a terra, mezzo bruciato, ancora attaccato alla catena. Non era riuscito a scappare.
Tentavo sempre di allontanarmi da quelle luci. Non volevo ritrovarmele di fronte, gli davo sempre le spalle e la mia mezza coda…


Eh sì, infine si staccò. Non ho nemmeno idea di quando o dove, non me ne sono proprio accorta.


Avevo paura di quei rombi. Le mie membra tremavano ogni volta che li avvertivo più vicino del solito e le mie gambe scattavano al primo riparo disponibile, benché non fossero abbastanza vicini da potermi nuocere.
Lungo il cammino mi interrogai più volte su cosa fosse accaduto. Tenni conto di tutto ciò che vidi e sentii, le luci,i rumori, la distruzione fino ad arrivare al comportamento degli umani resi quasi folli da quel qualcosa. Scene di pianti e urla di terrore mi invadevano la mente facendomi rivivere i primi soli di quel tormento. Madri che piangevano sui corpi dei cuccioli, uomini che si uccidevano tra loro incolpandosi a vicenda di non si sa cosa, altri che si nutrivano dei cadaveri.
Sembravano tutti impazziti.
Quella società, perfetta agli occhi dei più, in cui ero cresciuta non era poi tanto perfetta infondo. Era bastata una scintilla e i più bassi istinti di tutti si erano risvegliati dal loro torpore.
Quel qualcosa poteva essere paragonato ad una malattia, si diffondeva a macchia d’olio. Ovunque andassi la situazione non era diversa da dove provenivo, scene simili se non peggiori si susseguivano in tutti i luoghi che visitavo.
In fondo però non potevo biasimare quelle persone…avevano perso tutto. Anche sé stessi. A momenti mi facevano pena. Io stavo ancora bene. Mi ero adattata a quella vita abbastanza velocemente, loro, invece, abituati al loro vecchio modo di vivere, non vi erano riusciti e si erano perduti.
Rare eccezioni tuttavia esistevano.


Forse quelli sono sopravvissuti


Non so bene per quanto ho viaggiato prima di arrivare nel luogo dove sono ora. So solo che ho continuato a marciare, nutrendomi di quei dissacratori di cadaveri che erano i topi e del buon cuore di quelle persone che mai più rivedrò.
La cosa incredibile è stata che, appena sono uscita dal perimetro di quella che un tempo fu la mia città, la situazione andò via via migliorando. In aperta campagna quella follia morbosa portata dalle luci rombanti pareva non essere ancora giunta e tutt’ora è così.
So per certo però, che se quelle luci all’orizzonte si dovessero fare troppo vicine, scapperei di nuovo, via lontano, in un altro angolo di pace attendendo la fine di tutta questa follia.
A parte questo, sto con delle persone che possono permettersi di dividere qualche boccone con me e che hanno la casa ancora i piedi. Mi hanno anche dato un nuovo nome…
Ora come ora non so se mi andrà sempre di lusso, può darsi che prima o poi finisca con lo stancarmi di questo gioco dell’oca e finisca con l’arrendermi come tanti altri però nella mia totale ignoranza del futuro posso dirvi che per ora


il mio nome è Hope e sono sopravvissuta.


 
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